APPROFONDIMENTI

Fermare l’escalation – Appello integrale

Un appello alla mobilitazione generale contro guerra, armi e fossile

C’è una stretta connessione tra la militarizzazione dei territori in cui viviamo e le politiche di guerra che l’attuale governo conduce in continuità con quelli precedenti. Per questo la lotta contro la militarizzazione e la costruzione di nuove basi militari deve intrecciarsi con la lotta per fermare l’escalation globale verso la guerra. In tale prospettiva, “Fermare l’escalation” getta i suoi  primi passi all’assemblea del 4 giugno a Pisa convocata dal Movimento No base – Né a Coltano né altrove insieme a molte altre realtà di lotta politica, sociale, ecologica, transfemminista,  dell’associazionismo e del mondo antimilitarista e pacifista. In questa occasione ci siamo chiestə cosa poter fare insieme per fermare l’escalation bellica. 

“Le guerre non scoppiano, si preparano”, è una delle espressioni che abbiamo pronunciato più volte: come possiamo fare per costruire la fiducia e la possibilità di inceppare questa preparazione? 

L’escalation che stiamo affrontando è globale e ha conseguenze rovinose per i territori e le vite delle persone che li attraversano. La produzione bellica cresce incessantemente e l’avvitamento della guerra è sempre più impetuoso: riguarda l’Ucraina, il Medio Oriente, l’Africa, il Mediterraneo e tantissimi altri luoghi; Afghanistan, Yemen, Siria, Palestina, Iraq, Sahel, Congo, Nigeria, ma anche Etiopia, Myanmar, Colombia, Messico e molti altri. Questo avvitamento riguarda anche il nostro paese con investimenti in armi, in sistemi di controllo e confino dei flussi migratori, con l’uso di droni e lo sviluppo di nuove tecnologie militari. 

In questa realtà fatta di schemi patriarcali, guerrafondai, capitalisti ed ecocidi vogliamo andare oltre ogni binarismo, contro Putin e contro la NATO, mettendo a tema quanto sia fondante la guerra per il sistema in cui viviamo e per la sua riproduzione e quindi rifiutandola in tutti i suoi aspetti e dinamiche.

Questo avvitamento bellico ha radici molto profonde ed è rintracciabile soprattutto nel costante aumento delle spese complessive e particolari in apparati e servizi bellici. Dai dati SIPRI emerge che nel 2021 a livello globale sono stati usati più di duemila miliardi di dollari, spesa aumentata del 12% rispetto al 2012. Mentre nel nostro Paese i fondi previsti per spesa militare, nuove basi, poligoni di tiro e ammodernamento delle strutture attualmente esistenti passano dai 89,9 milioni di euro nel 2022 alla previsione di 262,3 milioni nel 2023-25; le spese strettamente militari, invece, dai 28,75 miliardi del 2022 ai previsti 38 miliardi nel 2027-28.  

Alle nostre latitudini questo panorama si confronta, oltre che con il militarismo italiano, con la ripresa del nucleare civile e militare e con la con la presenza massiccia di basi e logistiche militari USA e NATO utilizzate per mantenere un ordine di dominio globale strategico i cui costi vengono pagati dalle popolazioni. 

Il controllo e l’investimento sulle fonti energetiche, soprattutto fossili, rappresenta uno dei modi attraver rappresenta uno dei modi attraverso cui si ridisegnano le sfere di influenza mondiali, di cui le guerre sono naturale conseguenza. Nello scenario bellico globale, la corsa forsennata a nuove fonti fossili accelera la crisi climatica e approfondisce le disuguaglianze sociali, anche se mascherata dalla narrazione delle transizione ecologica, che si sta oggi consumando sulla pelle dellə lavoratorə e sui territori. Molte delle missioni militari condotte dallo Stato italiano hanno come destinazione paesi, dallo stretto di Hormuz a Mozambico, Egitto, Libia e Qatar, in cui sono più o meno espliciti degli interessi strategici legati a energia e fossile e ad aziende come ENI e SNAM. Secondo Greenpeace, circa il 64%   della spesa italiana per missioni militari all’estero serve a difendere asset strategici del fossile: per questo possiamo parlare di un’escalation militare in cui fossile e guerra sono intrecciate e in cui la proiezione bellica si configura come forma di estrattivismo neocoloniale.

Di tutto questo abbiamo discusso nel campeggio nazionale “Fermare l’escalation” che si è svolto dal 13 al 16 luglio a San Piero a Grado, in provincia di Pisa, nei pressi di un’altra base militare che già esiste ed è in funzione, il CISAM (Centro Interforze Studi per le Applicazioni Militari). Il campeggio ha avuto l’obiettivo di affrontare queste tematiche con molte realtà a livello nazionale e generale, con la volontà di connetterle e metterle in un dialogo, che non è scontato, e cominciare a immaginare pratiche di lotta e forme di cooperazione tra i vari ambiti e territori. 

In questo momento,  per contrastare il governo e il partito unico della guerra, c’è l’esigenza di costruire a livello generale e nazionale  un processo comune  di mobilitazione contro l’escalation militare radicato in ogni territorio in maniera sempre più interconnessa e sinergica.

Tanto l’unilateralismo statunitense quanto il cosiddetto “ordine multipolare” sono facce d’una stessa medaglia che vede la guerra e il controllo militare della vita e della natura come elemento costitutivo del riassetto capitalista in questa fase storica. La guerra in Ucraina è solo l’esempio più lampante di un campo di forze nel quale si scontrano – e allo stesso tempo convergono – vecchi e nuovi interessi e tendenze imperiali e militariste: da un lato il blocco atlantista, dall’altro la Russia di Putin. Ma è allo stesso tempo una cartina di tornasole di una crisi generale della governance capitalista, all’interno della quale si possono aprire una pluralità di terreni di mobilitazione sociale e politica. 

Stiamo assistendo a un moltiplicarsi di conflitti in tutto il mondo e l’accelerazione che vediamo anche alle nostre latitudini causata dalla guerra in Ucraina sta comportando una ricaduta di conseguenze sempre più invasiva sulla vita di tutte le popolazioni, in ogni territorio e ambito della vita e della società. 

Oggi a causa di questa guerra stiamo assistendo a una crisi economica e sociale sempre più stringente. A volere questa guerra sono le grandi potenze: da una parte il conflitto è stato alimentato dagli Stati Uniti, inquieti di perdere punti nella competizione al dominio mondiale, dall’altra la Russia pur di mantenere la propria influenza è intervenuta militarmente. Al contempo è evidente il totale asservimento da parte del governo italiano e delle élites europee alla direzione imposta da al di là dell’oceano. Questo implica una violenta scala delle priorità in cui le esigenze e i bisogni delle persone che abitano il nostro territorio stanno all’ultimo posto. Alla cieca missione da parte del governo per il finanziamento della guerra in corso alle porte dell’Europa, corrisponde una cruda volontà di calpestare le poche briciole di welfare sopravvissute, affamando e costringendo allo sfruttamento la popolazione. Alla narrazione guerrafondaia rivestita da pacifismo corrisponde un’insofferenza sociale che non vuole pagare i costi della guerra più vicina a sé. Proprio per questo motivo è chiaro che gli interessi nostri e della nostra parte non coincidano né con quelli bellicisti di stampo “occidentale” né tantomeno con il campo interventista di Putin. 

Abbiamo riassunto le caratteristiche dell’escalation militare in cinque punti che affondano nelle nostre vite concrete e nelle dinamiche che quotidianamente attraversiamo.

In maniera trasversale e fondamentale a tutti questi punti, vediamo un irrigidimento ulteriore di una cultura patriarcale e nazionalista e dei ruoli di genere che a essa sono associati che trova massima espressione nella cultura della guerra e ne è fondamento. Così vediamo il costante aumento della violenza di genere, perchè l’aumento del militarismo come unica prosepttiva è alla base di ogni cultura dello stupro. Questo nel nostro paese si accompagna al restringimento dei diritti riproduttivi e genitoriali, che sta nel quadro di un attacco a questi diritti attivo in tutta Europa. 

  • Il primo punto riguarda la cultura della guerra e le forme di militarizzazione e disciplinamento che attraversano tutti i cicli scolastici e gradi della formazione. Questo è evidente da proposte del governo come quella della “mini naja”, dalla retorica del merito e dell’umiliazione sempre più pervasiva e da iniziative con le forze militari, gite in caserma e aeroporti militari, anche con bambinə di 3 o 4 anni; vediamo questo aspetto anche nei tentativi di reclutamento delle persone giovani all’uscita dalle scuole superiori e all’università, in cui negli orientamenti e avviamenti al lavoro la carriera militare è proposta come unica prospettiva sicura di lavoro e nella ricerca scientifica, sempre più piegata al dual use civile/militare e ai finanziamenti e fini del complesso militare-industriale. Questo ci interroga sulle prospettive di lotta rispetto alle ricadute culturali e di genere della guerra. Di questa cultura è emblema la presenza di Guido Crosetto al Ministero della Difesa: già presidente della Federazione aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza (AIAD) di Confindustria e Senior Advisor di Leonardo, nel 2020 viene nominato presidente di Orizzonte Sistemi Navali (OSN), impresa creata come joint venture tra Fincantieri e Leonardo e specializzata in sistemi ad alta tecnologia per le navi militari e di gestione integrata dei sistemi d’arma.
    Questa cultura manipola e oscura le dinamiche che la animano: i flussi di denaro e armi, le guerre in corso con le loro ripercussioni. Desecretare la guerra e i suoi interessi è un obiettivo di questo processo.
  • Il secondo punto riguarda l’aumento delle spese militari a scapito delle spese sociali. A partire dal quadro europeo dove I finanziamenti per rifornire di armi l’Ucraina sono stati presi dal Fondo per la Pace, la Commissione ha approvato un vergognoso regolamento (ASAP) per la produzione di armi dove si destinano 500 milioni di euro a sostegno diretto dell’industria bellica e si ammette che gli stati utilizzino I fondi del PNRR e per lo Sviluppo e la coesione sociale per aumentare ulteriormente la capacità produttiva. In Italia  abbiamo visto  4 miliardi di euro destinati all’acquisto di carri armati, mentre il ministro Fitto ha effettuato una manovra di tagli sui progetti comunali legati alla tutela del territorio e al benessere sociale: valorizzazione del territorio e l’efficienza energetica dei comuni (6 miliardi di euro), interventi per la rigenerazione urbana (3,3 miliardi di euro), piani integrati (2,49 miliardi), misure per la gestione del rischio alluvione e per la riduzione del dissesto idrogeologico (1,2 miliardi), utilizzo dell’idrogeno per la riqualificazione dell’Ilva di Taranto (1 miliardo), potenziamento dei servizi e infrastrutture sociali di comunità per le aree interne (724 milioni), promozione degli impianti energetici innovativi (675 milioni), valorizzazione dei beni confiscati alle mafie (300 milioni), tutela e valorizzazione del verde urbano ed extraurbano (110 milioni). Questi tagli alimenteranno un altro piano, il REPowerEU, pensato per accelerare la transizione energetica e l’autonomia energetica dell’Italia con investimenti su infrastrutture come gasdotti e reti per la distribuzione dell’energia elettrica. Nella nuova versione, il REPowerEU ammonterà a 19,2 miliardi di euro.
  • Il terzo punto riguarda le occupazioni militari sui territori, dalle infrastrutture e basi militari già presenti a quelle che ancora devono essere costruite, come la Base militare progettata sul territorio di Coltano e destinata alle Forze Speciali dei Carabinieri “Tuscania” e GIS. Inoltre, è di qualche settimana la notizia del progetto del Comando NATO Sud a Firenze, struttura che dovrebbe avere finalità di governo delle forze NATO in tutto il Sud Europa. Questa dimensione di occupazione militare è già presente in molti altri luoghi, come la Sicilia (dalla base di Sigonella al MUOS) e la Sardegna (occupata da numerose basi militari, tra cui i Poligoni di Quirra e Teulada), ma si può vedere anche nel maggiore irrigidimento e inasprimento del controllo sulle frontiere della “fortezza Europa”, in cui è sempre più pervasivo l’utilizzo di tecnologie di sorveglianza elaborate da aziende come Frontex e che vede una forte militarizzazione delle rotte migratorie (emblematico è il caso del ruolo delle forze speciali italiane, tra cui il Reggimento Paracadutisti “Tuscania”, nell’appoggio e addestramento della Guardia Costiera libica, con funzione anti migratoria).
  • Un quarto punto riguarda le conseguenze ambientali e sulla salute delle occupazioni militari e della dimensione complessiva di escalation bellica e militarizzazione: da un lato, vediamo connesso alla presenza di basi e infrastrutture militari l’incremento di malattie tumorali, leucemie, forme di inquinamento del suolo a causa dei materiali bellici (come l’uranio impoverito utilizzato per rivestire le munizioni) che avvelenano comunità umane e non umane e rispetto alle quali è difficile produrre una documentazione ufficiale a causa del segreto che grava su ogni informazione relativa al comparto militare; dall’altro, le infrastrutture militari o militari-civili (come il progetto del Ponte sullo stretto, il TAV, le molteplici basi militari presenti su suolo italiano) contribuiscono a un’importante devastazione dell’ambiente, dei suoi ecosistemi ed equilibri, oltre a costituire un fattore di cementificazione e impermeabilizzazione del suolo che ha conseguenze nocive. Spesso queste infrastrutture sono costruite in aree protette o poco antropizzate, sacrificate agli interessi della guerra, anche a causa dei processi di spopolamento e marginalizzazione che le colpiscono. 
  • Il quinto punto riguarda i costi della vita in relazione ai salari: vedendo il taglio recente sul reddito di cittadinanza, la crescita dell’inflazione dell’ultimo anno e mezzo, l’aumento del carovita, degli affitti, dei mutui, delle bollette rispetto a salari stagnanti, è evidente come interrogarsi su cosa significhi lavorare oggi sia legato a doppio filo con l’escalation bellica in cui siamo immersə. La logica repressiva e militare attacca in particolar modo il diritto alla casa:  mentre si agisce e si progetta un aumento dei tagli ai sussidi (come la proposta di abolire la compensazione per morosità incolpevole) e si intensificano gli sfratti, tramite un nuovo progetto di legge il Parlamento si preoccupa di rendere subito “occupante” chi non riesce a pagare affitti troppo alti, rispondendo a una crisi sociale con un irrigidimento militarista e poliziesco. La retorica militarista non prevede altra alternativa se non quella della guerra e dell’economia di guerra, con la sua filiera produttiva e riproduttiva, con i suoi tagli e i suoi investimenti. A ciò, infatti, si aggiunge lo smantellamento  dei servizi, da quelli scolastici ai presidi sanitari, da forme di sussidio alle case popolari, per continuare a investire in maniera massiccia nell’industria militare.

Questo quadro schematico compone l’escalation a cui stiamo assistendo e restituisce un processo di discussione tuttora in corso. Questo quadro rimane velato e nascosto dietro un piano di narrazione mediatica che frantuma una visione d’insieme delle guerre, dei loro fini e dell’economia che le sostiene. Una questione essenziale è infatti desecretare la guerra e la manipolazione dell’informazione che la sostiene.

Per questo, nelle prime settimane di percorso “Fermare l’escalation” abbiamo avuto occasione di confrontarci, condividere informazioni e saperi e di costruire una mappatura delle relazioni tra fossile, energia e guerra, come si configurano sui territori italiani e nel Mediterraneo allargato. Abbiamo cominciato a costruire una mappa interattiva in cui ogni territorio ha potuto iniziare a restituire questa interconnessione, nell’ottica di visualizzare come questi pezzi, dalle infrastrutture energetiche alle occupazioni e alle missioni militari, siano collegati e in prospettiva come poter ricomporre le differenti o potenziali lotte. La mappatura può restituire come il capitale e gli stati organizzino i loro hub militari ed energetici, in cui ogni parte ha un ruolo specifico rispetto alle altre, e quindi aiutarci a capire come connettere tutte queste lotte, conoscenze e informazioni che ne scaturiscono, perché siano sempre più incisive. 

Per tutte queste ragioni vorremmo avviare un processo di cooperazione nazionale e generale per aggredire l’escalation militare in forme e ambiti della vita differenti, in maniera non solo testimoniale, raccogliendo un sentimento diffuso di insofferenza verso la guerra e verso l’escalation bellica. Sarà importante tenere insieme un piano territoriale di radicamento e sviluppo delle lotte e un piano generale e nazionale di ricaduta. 

Per questo, sostenendo lo sciopero generale contro la guerra e l’economia di guerra del 20 ottobre, vogliamo partire da un primo momento di mobilitazione generale nazionale il 21 ottobre in due zone occupate militarmente e che si sono messe a disposizione, come il territorio tra Pisa e Livorno e quello della Sicilia, in cui costruire manifestazioni contro le occupazioni e infrastrutture militari che saturano questi luoghi e li rendono emblematici di questa dinamica di escalation.

L’obiettivo non è lanciare una data in sé per sé, ma è avviare un processo “Fermare l’escalation” che per essere tale necessita della responsabilità e dell’impegno quotidiano di ciascunə in termini personali e collettivi e che nelle date abbia punti di ricaduta, per rilanciare e costruire delle lotte comunicanti tra loro in tutti questi ambiti della vita nella loro relazione con l’escalation militare: dallo sciopero produttivo e riproduttivo nella filiera bellica alle azioni di contrasto alle basi militari, dallo sviluppo di informazione alternativa e differente alla diserzione dalla guerra nei contesti formativi, dalle lotte contro il fossile e per la giustizia climatica alle lotte sociali per la casa, la sanità, i servizi.

Pur con tutte le difficoltà, vogliamo assumerci l’onere di questo percorso perché questo è il momento in cui iniziare a costruire fiducia, possibilità, presa di parola e blocco, e soprattutto speranza, per sfidare l’impotenza in cui ci vogliono rinchiudere.